DOVERI E DIRITTI IN TEMPO DI PANDEMIA E SMART-WORKING FORZATO

Roma -

In tempo di quarantene, distanziamento sociale, smart working come lavoro ordinario, tempo per informarsi sul mondo del pubblico impiego e sull’approccio al lavoro agile da parte dei vari enti si trova.

Ed allora appare molto strano scoprire che i dipendenti di altre amministrazioni pubbliche, fin dall’inizio se in lavoro agile, percepiscono comunque il buono pasto, mentre nel nostro dicastero questo diritto è sempre stato negato.

Sempre più spesso, sentendo discorsi della dirigenza, il lavoro agile è ancora percepito come una imposizione dall’alto, una scappatoia per i fannulloni e quindi diventa giusto limitarne i diritti, “in fondo si tratta di un trattamento di favore all’impiegato”, “e chi controlla che realmente svolga l’orario di lavoro?”, “se ho bisogno di una informazione subito devo pregare che l’impiegato risponda al telefono o legga un’email” e via discorrendo.

Poi invece scopriamo - c’è una ampia letteratura sia su esperienze private che pubbliche - che la produttività di chi è in smart working è maggiore, molti dirigenti scettici si stanno ricredendo perché c’è un maggior controllo sull’attività, si facilita la valutazione perché diventa un lavoro per obiettivi facilmente misurabile, si può pensare di ottimizzare gli uffici in un futuro prossimo riducendo spazi spese e consumi, perché diventa non più necessario fornire ogni impiegato di un arredo specifico, ma potrà essere condiviso, serviranno meno spazi comuni e servizi etc. etc.

Ai lavoratori lo smart working è stato presentato ed evidenziato come una forma di conciliazione vita-lavoro, con meno spese per gli spostamenti, maggiore possibilità di accudire i figli, la libertà di scegliere quando lavorare anche in base alle esigenze di vita, alla fine un mondo più sereno.

Sorvolando sugli aspetti di condivisione sociale del lavoro, sullo scambio di idee che si va a perdere, sull’indubbio aumento del “distanziamento sociale” che, anche senza virus in giro, ottiene anche una minore possibile conflittualità, legata appunto alla scarsa condivisione dei problemi legati al lavoro ed alla vita quotidiana

Sorvolando, ancora, sulla possibilità concreta che i carichi di lavoro possano aumentare (come già evidenziato nelle sperimentazioni del mondo privato), riducendo di fatto, col tempo, la predetta conciliazione vita-lavoro, l’impegno anche economico del datore di lavoro, vincolato dalle leggi sulla sicurezza ad agire per la gestione del benessere lavorativo e degli aspetti ambientali e sanitari del luogo di lavoro, tutti trasferiti sulle spalle del lavoratore, basta leggersi le avvertenze sulla gestione della sicurezza fornite agli smart-workers .

In questi giorni di “clausura”, come detto all’inizio, abbiamo avuto modo di spulciare decreti, determine, regolamenti e circolari delle amministrazioni pubbliche simili alla nostra. E veniamo a scoprire che il nostro dicastero è uno dei pochi che nega al proprio dipendenti in smart working l’erogazione del buono pasto!

Se nella fase precedente alla pandemia si parlava ancora di sperimentazione, improvvisamente ci siamo trovati costretti per decreto del Presidente del Consiglio a trasformare la nostra vita ed il nostro approccio al lavoro cambiando completamente prospettiva, accettando appunto di lavorare da casa come se fossimo in ufficio, molto spesso con i nostri mezzi (PC, collegamenti di rete etc.).

Appare poi, ad esser gentili, molto singolare che, ad esempio, la Presidenza del Consiglio dei Ministri o il MIBACT, a differenza del MEF, abbia tenuto a specificare nei loro regolamenti che gli impiegati, anche nelle giornate in cui sono impegnati nello smart working, abbiano comunque diritto a percepire il buoni pasto.

Singolare anche considerando che le due dirigenti più legate all’introduzione di questa nuova modalità di lavoro provengano o siano passate dalla PCM proprio in ruoli molto legati ai temi della conciliazione, delle pari opportunità, del benessere lavorativo. Ci riferiamo alla direttrice generale del dipartimento degli Affari generali (DAG), la dott.ssa Vaccaro, ed alla direttrice del personale dello stesso dipartimento, la dottoressa Parrella. Quest’ultima già direttrice del dipartimento per le pari opportunità del PCM ed entrambe già presidenti di CUG, la prima del MEF e la seconda della PCM.

Chiediamo pertanto a loro, anche alla luce di quanto disposto dalla circolare n. 2/2020 della ministra Dadone che apre ampi spazi in tal senso, di rivedere l’incomprensibile differenza di trattamento per il personale MEF, che nega soprattutto in questo periodo il diritto a percepire il buono pasto che altri lavoratori hanno preservato e che rappresenta, vista anche l’attuale situazione, una componente della retribuzione irrinunciabile, avendo ovviamente maggiori spese di gestione della vita familiare.

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