Facciamo il punto sul Contratto delle Funzioni Centrali a partire da alcuni dati incontrovertibili

Roma -

Approfittiamo della pausa estiva per fare il punto della situazione rispetto al rinnovo del CCNL delle Funzioni Centrali, da sempre paradigma del rinnovo dei contratti del pubblico impiego.

Molto si è detto e soprattutto si è scritto, in queste settimane, sia da parte sindacale che da parte datoriale, sul rinnovo ed in particolare sulla parte economica del contratto. Vogliamo in questa sede ristabilire qualche verità oggettiva da cui poi ripartire a settembre quando la trattativa inevitabilmente entrerà nel vivo.

Tempi di rinnovo. Uno dei cavalli di battaglia impugnato dalle controparti, Governo e sindacati collaborazionisti, è quello dei tempi del rinnovo. Stiamo rinnovando il CCNL nell’ultimo anno del triennio, esattamente come è stato fatto nella precedente tornata (2019-2021), concluso con la firma della bozza nei primissimi giorni del 2022 e ancora meglio in quello 2016-2018 firmato definitivamente a febbraio 2018. Quindi non siamo in una tempistica così straordinaria come vorrebbe far credere la “narrazione” in chiave governativa per indorare la pillola; siamo viceversa purtroppo nella consuetudine di rinnovare i CCNL in prossimità della scadenza o, peggio ancora, a scadenza già avvenuta. Rivendicare questa tempistica come attenzione alle lavoratrici e ai lavoratori pubblici, ci sembra francamente e veramente fuori luogo.

Inflazione e risorse stanziate. Chiaramente la protagonista di questa tornata contrattuale è l’altissima inflazione registrata nel triennio di riferimento. L’IPCA (indice dei prezzi depurato del costo dei beni energetici) nel triennio 2022-2024 è il 15,4%, a fronte del quale il Governo ha stanziato risorse pari ad aumenti medi del 5,78%. La perdita secca del potere d’acquisto è del 9,6%. Sono stati enunciati in qualche scritto gli aumenti dei precedenti rinnovi superiori di qualche decimale all’IPCA, quasi a dire che quei quattro soldi in più possano bilanciare la perdita del potere d’acquisto che si sta realizzando con questi rinnovi. Purtroppo, andando ancora qualche anno indietro ci si renderà conto che con il blocco del rinnovo contrattuale sono saltate due intere tornate producendo un ulteriore danno del 10,4% che si aggiunge a quello di questo contratto. USB dalla fine del blocco contrattuale, nel 2017, in splendida solitudine, non ha mai smesso di rivendicare aumenti che tenessero conto anche di quanto perso nei due trienni senza CCNL.

Aumenti medi. Sui giornali è circolata la cifra comunicata al tavolo da ARAN di aumenti pari a 159 euro lordi medi. Al momento, secondo le prime tabelle ARAN portate al tavolo si realizzerebbe un aumento dello stipendio tabellare rispettivamente 140 euro lordi al mese per l’area dei Funzionari, 116,10 per quella degli Assistenti e 110,40 per gli Operatori, uguali per tutti i settori che compongono il comparto. Questa distribuzione produrrebbe un avanzo pro-capite di 30 euro medi (59 euro per i lavoratori degli EPNE, 45 euro per quelli delle agenzie e 19 per quelli dei ministeri). Chiaramente sarà il tavolo a stabilire la destinazione di queste quote residue e non vi sono certezze alcune che queste andranno ad aumentare la parte fissa dei salari. Infatti, nell’ambito del fondo accessorio, potrebbero essere destinate a voci variabili e non dirette a tutto il personale come la valutazione, le posizioni organizzative o altre voci che non andranno alla generalità dei lavoratori e che sono anche sponsorizzate nell’atto di indirizzo

Questa ipotesi, che è tutt’altro che improbabile, significherebbe che nessuno o quasi prenderà i famosi 160 euro medi che il Governo continua a pubblicizzare. Per cui, ad oggi, la definizione più corretta è che il rinnovo contrattuale del settore pubblico avrà per la parte datoriale un costo medio pro-capite di 159 euro, ma non sarà quella cifra a finire nelle tasche dei lavoratori, come invece ampiamente titolato da molti giornali.

La questione salariale rimane il nodo centrale sul quale si gioca la chiusura di un contratto che non ha come base di partenza della contrattazione la restituzione a lavoratori e lavoratrici di quanto perso in termini di potere d’acquisto dei salari. Una contrattazione morta sul nascere, sempre più stretta tra vincoli di bilancio e stanziamenti insufficienti, costretta a ripiegare su scarsi miglioramenti normativi attuabili solo se a costo zero.

 

USB Pubblico Impiego

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