Verso la Conferenza di Organizzazione 9 - 10 - 11 maggio 2002

Roma -

Si invia la documentazione per la conferenza di organizzazione del pubblico impiego più il verbale dell'ultimo consiglio nazionale di P.I.

Lo scorso 8 Marzo si è tenuto il Consiglio Nazionale Pubblico Impiego.

All’ordine del giorno:

· la discussione sul documento preparatorio della Conferenza di Organizzazione del 9-10 e 11 Maggio prossimi a Castelnuovo di Porto ( Roma) presso la struttura della Protezione Civile;

· il rilancio dell’iniziativa del pubblico impiego dopo lo sciopero generale del 15 febbraio scorso.

Il Consiglio Nazionale dopo aver discusso approfonditamente il documento preparatorio della Conferenza lo ha approvato definendone il percorso di discussione e di costruzione.

Il documento dovrà arrivare in tutte le strutture di posto di lavoro in modo che tutti gli iscritti, i delegati e gli eletti Rsu possano partecipare alla discussione che, ovviamente, dovrà coinvolgere l’intero corpo della nostra organizzazione sindacale per arrivare alle Assemblee dei delegati regionali di RdB Pubblico Impiego.

L’Assemblea regionale di P.I., come recita testualmente il documento approvato, è la sede deputata a ragionare sulle scelte operate finora, sui risultati perseguiti e realizzati, sul ruolo esercitato dai componenti il Coordinamento e la direzione regionali e a decidere le integrazioni, modifiche, sostituzioni sull'impianto organizzativo che ci si è dati.

I delegati di ogni singola regione saranno espressi dai coordinamenti regionali in modo da garantire i criteri che hanno portato alla loro costituzione: tendenziale pariteticità di rappresentanza dei comparti e adeguata presenza dei territori provinciali.

Per dotarci di ulteriori strumenti utili alla discussione saranno allegati un documento sul

“federalismo” e una valutazione sul risultato elettorale RSU 2001, già pubblicati dalla rivista “Proteo”, che dovranno essere consegnati a tutti unitamente al Documento.

La diffusione capillare del Documento è fondamentale e di questo dovranno farsi carico i Coordinamenti Regionali di pubblico impiego, i coordinamenti territoriali di settore e le Federazioni.

Nel dibattito al consiglio Nazionale dell’8 Marzo è emerso l’invito ad approfondire la riflessione su alcuni punti, in particolare:

· le prospettive di sviluppo dopo lo Sciopero generale e la Manifestazione nazionale del 15 febbraio e rapporto con il resto del sindacalismo di base;

· la condizione lavorativa delle donne nella pubblica amministrazione;

· caratteristiche e qualità dell’informazione interna (capillarità, tempestività, siti, bollettino, ecc.);

effetti determinati dall’emergere del movimento No Global e riflessi sulle politiche sindacali.

Il numero dei delegati alla Conferenza, rispetto ad una prima ipotesi di 180, è stato fissato, per garantire una più larga partecipazione, nella misura di 245, così ripartito:

Lazio 22, Lombardia e Toscana 19, Emilia e Piemonte 16, Campania, Liguria, Puglia, Sicilia, Veneto 13, Calabria e Sardegna 10, Marche 7, Abruzzo e Friuli 6, Basilicata e Molise 4, Umbria 2, Trentino e Val d’Aosta 1.

A questi vanno aggiunti i 5 componenti della Direzione nazionale uscente, 25 compagni che dirigono le strutture nazionali di comparto e/o di Enti e Ministeri di grosso rilievo nazionale, 7 compagni di Federazioni di riferimento territoriale.

Nel ruolo di invitati parteciperanno gli ulteriori 8 componenti del Coordinamento Nazionale della Federazione.

· Riguardo al secondo punto all’ordine del giorno della riunione dell’8 Marzo, il Consiglio Nazionale ha deciso di dare vita per il prossimo 21 Marzo ad una giornata nazionale di lotta in tutte le città italiane per rilanciare l’iniziativa contro l’attacco del governo ai diritti e alle tutele dei lavoratori ( non solo l’art. 18), contro la concertazione e nello specifico contro l’ignobile preintesa del 4 febbraio scorso sul pubblico impiego.

Pubblichiamo di seguito la BOZZA del documento preparatorio alla conferenza di Organizzazione.

Ulteriori documenti utili alla discussione:

1) “Le trappole del Federalismo” una inquietante riforma ormai alle porte

2) “Il Federalismo dei nuovi Boiardi” di Sergio Cararo

3) “The Federal Business Revolution”.Parte Prima: i percorsi attuativi della “grande” riforma della Pubblica Amministrazione di Martufi e Vasapollo

4) STATO, REGIONI ED ENTI LOCALI NEL QUADRO DELLA RIFORMA

DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE” Dislocazione dei poteri, trasferimento di compiti, decentramento e federalismo: tra riforme costituzionali e mutamenti già avvenuti

5) “ELEZIONI RSU NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE”:Un brillante successo della RdB Pubblico Impiego

 

BOZZA DEL DOCUMENTO PREPARATORIO DELLA

 

CONFERENZA DI ORGANIZZAZIONE DEL 9-11 maggio 2002

Arriviamo finalmente al momento di verifica dell’esperienza fin qui vissuta dalla RdB Pubblico Impiego.

Un’occasione di verifica e di confronto che avevamo deciso di darci nel momento in cui, con il Congresso di aprile 2000, abbiamo operato la scelta di passare dal precedente modello di organizzazione per comparti a quello più generale di Pubblico Impiego.

Una decisione imposta dalla consapevolezza che ci accingevamo ad affrontare questa sfida dovendo sperimentare nella fase di avvio un nuovo modello di relazioni tra noi che fosse capace di tenere assieme le diverse soggettività espresse dalle categorie di provenienza, frutto di percorsi e storie diverse, in un contesto organizzativo unitario e nuovo, un diverso modo di ragionare collettivamente, un nuovo modo di fare sindacato.

Questo appuntamento arriva a due anni dal deliberato congressuale, ad un anno e mezzo di esperienza effettivamente tentata e/o praticata.

Ci arriviamo in un momento particolarmente delicato, difficile e complesso ma molto interessante che ci impone di affrontare la riflessione e la discussione sulla nostra esperienza in un contesto di trasformazioni profonde e nel vivo della battaglia sociale.

Proprio per questo, alcune o tante delle valutazioni e delle previsioni contenute in questo documento rischiano di essere corrette o superate dall’incalzare degli avvenimenti.

Dobbiamo, perciò, prepararci ad affrontare il confronto e a scandire i suoi tempi in dialettica con il mutare della situazione per essere in grado di correggere il tiro e non rimanere inchiodati esclusivamente ad un dibattito interno.

A posteriori possiamo ben dire di aver fatto bene a resistere alla richiesta tanto ossessiva quanto immatura, anche se legittima sul piano formale, proveniente da alcuni settori dell’organizzazione, di tenere l’appuntamento nel corso del 2001.

Voler prendere tempo, al contrario di quanto si è voluto far credere, era dettato semplicemente dalla consapevolezza di dover affrontare la discussione sull’organizzazione solo dopo avere sperimentato il nuovo modello organizzativo per un lasso di tempo minimo ma sufficiente a rappresentare un test attendibile e, soprattutto, dopo essersi misurati con prove di una qualche complessità ed importanza.

Almeno da questo punto di vista possiamo affermare che un bilancio, quale che sia, ma serio e concreto può essere tratto con cognizione di causa.

In questo periodo ci siamo misurati con:

 

· la stagione contrattuale, relativa al biennio economico, nel corso della quale abbiamo lanciato e imposto all’attenzione di tutti, attraverso la parola d’ordine per SALARI EUROPEI, il problema del salario e del ripristino di meccanismi d’indicizzazione automatica dentro un’ottica che reclama una diversa distribuzione della ricchezza;

 

· il REFERENDUM sul cosiddetto federalismo, affrontato in splendida solitudine nel panorama sindacale e in assenza di un qualsiasi spazio sui mezzi d’informazione di massa, anche se previsto dalle norme in materia. A questo proposito farebbero bene ad interrogarsi tutte quelle anime candide che oggi, e giustamente, strepitano sulla RAI di Berlusconi ma che allora non abbiamo sentito nemmeno balbettare per l’assenza di pluralismo nella RAI dell’Ulivo;

 

· il tema della lotta alla cosiddetta globalizzazione, anche in rapporto dialettico con il movimento No Global, partecipando in modo attivo e differenziato alle giornate di mobilitazione contro il G8 a Genova e a molte delle iniziative successive;

 

· le iniziative di lotta contro la “guerra infinita” decretata dopo l’attentato alle Torri dell’11 settembre;

 

· la costruzione, per la prima volta, della piattaforma contrattuale di pubblico impiego alla quale devono ispirarsi i singoli settori con l’obbiettivo di superare i particolarismi e fare emergere con forza i punti qualificanti della vicenda contrattuale ma, anche e soprattutto, superare la dimensione rivendicativa spicciola ed assumere quella politica.

 

Mettere al centro dell’attenzione dei lavoratori, cioè, la necessità di una battaglia contro lo smantellamento della Pubblica Amministrazione per imporre, invece, un suo rilancio e riqualificazione anche a difesa e per il rilancio dello Stato sociale;

 

· l’appuntamento elettorale per il rinnovo delle RSU nel Pubblico Impiego, che ha assorbito tanta parte delle nostre energie e risorse, costruito a partire dalla messa a fuoco della nostra piattaforma politico-programmatica nel corso dell’Assemblea Nazionale degli eletti tenuta a Roma il 1 giugno;

 

· la costruzione di un percorso di lotta contro la legge finanziaria e il complesso di misure adottate dal governo Berlusconi in ogni campo. Lo sciopero generale e la grande manifestazione nazionale del 9 novembre organizzati insieme a tutta la Cub, lo Slai Cobas e l’USI.

Il nuovo sciopero generale e la grandiosa manifestazione di P.za S. Giovanni, il 15 febbraio, di tutto il sindacalismo di base che ha rappresentato una svolta nel panorama sindacale italiano. Si è imposta all’attenzione di tutti l’esistenza di un’alternativa radicale alla politica concertativa e si è manifestata un’adesione di massa a quell’alternativa.

 

Come si vede una breve storia ma intensa e ricca di appuntamenti dal significato poliedrico ma di un’incidenza politica che riteniamo notevole.

Alla luce di una lettura critica di questa esperienza dobbiamo capire che cosa ha funzionato o meno, chiarendo in primo luogo quale senso abbia e quale obiettivo si deve proporre la Conferenza di organizzazione.

Per evitare la fatica di reinventarci una risposta basta rimandare al testo che è stato deliberato con il congresso:

Al fine di rendere applicabile il modello organizzativo che scaturirà dal piano di riorganizzazione…la Conferenza straordinaria di Organizzazione…ha il potere di effettuare le modifiche organizzative e degli organismi che si renderanno necessari alla luce delle verifiche che compiremo sull’affidabilità politico/organizzativa del nuovo modello e gli eventuali necessari adeguamenti statutari.

Dobbiamo, perciò, passare in primo luogo al bilancio e dare una valutazione dei risultati conseguiti su tutti terreni: crescita delle adesioni, diffusione territoriale, risultati elettorali per le RSU e loro effetti sul livello di rappresentatività, agibilità, peso politico e potere contrattuale, capacità d’iniziativa e di rappresentazione politica e, alla luce del complesso di considerazioni finali, operare le scelte.

Perché abbiano senso le valutazioni devono essere “storicizzate”, devono tener conto, cioè, del contesto in cui abbiamo operato in questo anno e mezzo e delle profonde trasformazioni che sono intervenute in questo pur breve lasso di tempo sul piano sociale, istituzionale, politico e sindacale.

Questo tempo può quasi esattamente essere diviso in due metà, la prima che vedeva alla guida del paese il governo dell’Ulivo, la seconda il governo Berlusconi.

La prima metà è caratterizzata da un rapporto di sostanziale subalternità e/o di vera e propria complicità di Cgil, Cisl e Uil con le politiche adottate da quei governi sul terreno delle privatizzazioni, della politica dei redditi, delle profonde modifiche introdotte nel rapporto di lavoro, dello smantellamento avanzato della P.A. (dalla prima Bassanini alla quater) della progressiva riduzione dello stato sociale, sul terreno istituzionale, ecc., una politica ed un insieme di provvedimenti che, pur avendo prodotto nuove diseguaglianze e forte insicurezza sociale, non hanno consentito che si dispiegasse il conflitto, preparando così il terreno per l’affondo finale e le condizioni per una possibile sconfitta.

Gli unici momenti di frizione, ma solo tra i vertici degli apparati (vedi la polemica D’Alema-Cofferati) e sul terreno delle competenze reciproche, si sono registrati solo quando è apparso chiaro che la concertazione dopo l’ingresso nell’Euro aveva esaurito il suo compito ed era oramai superata dalla necessità di accelerare il processo di trasformazione produttiva e finanziarizazione dell’economia italiana dettato dalla competizione globale.

 

La seconda metà vede l’affermazione elettorale del patto Berlusconi-D’Amato e la nascita del nuovo governo.

L’appoggio della Confindustria è frutto della crisi di prospettive di un capitalismo assistito, del quale Berlusconi è fulgido esempio, abituato da sempre a competere attraverso le svalutazioni della lira, lo sviluppo dell’inflazione e finanziamenti di Stato.

E’ dettato, peraltro, dalle difficoltà dei governi precedenti a regolare i conti con qualsiasi pur minima forma di resistenza opposta da Cgil, Cisl e Uil al superamento della concertazione così come è stata per tanti anni.

 

Il patto punta, invece, ad una forte accelerazione dei processi già avviati dagli ulivisti e al completo smantellamento dell’uniformità delle tutele e l’universalità dei diritti per imporre diversi rapporti di forza tra capitale e lavoro, diverse relazioni sociali che puntano a snaturare ulteriormente il ruolo del sindacato e la sua stessa natura.

Nei progetti di questa nuova santa alleanza il sindacato deve assumere connotati aziendalistici e corporativi che escludono qualsiasi forma di solidarietà, di cointeressenza, infine, un nuovo modello di sviluppo economico e sociale nel quale i lavoratori sono espropriati del tutto della loro soggettività e ridotti a semplice merce tra le tante altre.

Il tutto al peggio possibile!

In questo contesto scoppiano le contraddizioni, riemerge il conflitto e con esso aumentano per noi le opportunità per svolgere un ruolo più avanzato.

 

Sul piano politico istituzionale si registra con le elezioni del 13 maggio una forte affermazione del bipolarismo, frutto di una legge elettorale varata dal centrosinistra che, in parallelo con quello che è successo nei luoghi di lavoro, riduce gli spazi di democrazia e di pluralismo parlamentare e che fa, quindi, emergere un forte deficit di rappresentanza politica.

Questo fenomeno, a parte qualsiasi altra considerazione o implicazione sul terreno prettamente politico, ha un suo specifico impatto in ambito sindacale.

La necessità di una forte rappresentanza politica per poter esercitare al meglio la propria funzione è richiamata espressamente da Cofferati nella relazione di apertura del congresso della Cgil e tanta parte ha contato nel dibattito e nelle conclusioni stesse.

Un congresso che, a parte il peso esercitato dalle prospettive del nuovo ruolo di Cofferati leader politico, si è limitato ad una lettura politicista della realtà confermando per intero le scelte fatte negli anni precedenti e ruotando sull’interrogativo, sciopero generale sì- sciopero generale no, ha fatto guadagnare alla Cgil una ricollocazione, più apparente che reale, a sinistra.

Una ricollocazione che, pur apparendo più subita che assunta per effetto di una revisione critica propria, è gravida di molti equivoci e in grado di indurre a possibili sbandamenti.

Tanto più gravi se si producono in assenza di un nuovo impianto rivendicativo che almeno accenni ad una natura diversa di quel sindacato.

 

E da questo punto di vista non abbiamo registrato alcun accenno, se non autocritico, nemmeno propositivo su una diversa piattaforma rivendicativa in tema di salario e di una diversa politica redistributiva, di salario sociale, sull’orario di lavoro, sul mercato del lavoro, sull’organizzazione del lavoro e la sua gerarchizzazione interna, sul terreno della democrazia nei luoghi di lavoro (dal ruolo delle RSU alla validazione delle piattaforme e all’approvazione degli accordi …)

 

E’ subita, se non accettata, l’idea che il lavoro è merce!

 

Lo stesso deficit di rappresentanza ha spinto D’Antoni all’avventura e alla sconfitta elettorale e spinge la Cisl, oggi, a smarcarsi dagli altri e da scelte di contrapposizione politica al governo.

Anzi, in coerenza con la nuova collocazione del suo vecchio leader nella maggioranza di governo, poco coerente, però, con la collocazione “indipendente” della campagna elettorale, lo assume come propria rappresentanza per tentare di riannodare i fili di una concertazione anche al ribasso che assicuri un ruolo, potere, le proprie stesse possibilità di sopravvivenza.

 

Nel fare questa scelta si da una piattaforma forte e coerente con la propria natura di rappresentanza non di tutti i lavoratori ma dei propri iscritti, soprattutto con i propri interessi di organizzazione.

Il collateralismo con gli obbiettivi del governo si esplicita così con la richiesta di una minore incidenza del contratto nazionale ed invece, in linea con l’articolazione “federalista” dello Stato, di un maggior peso alla contrattazione di secondo livello, un patto neocorporativo e neo familistico per occupare gli spazi lasciati vuoti dall’arretramento dello stato sociale.

 

La Uil, dilaniata al suo interno tra l’anima filo governativa e quella filo ulivista, si barcamena tra Scilla e Cariddi alla ricerca sempre più affannosa di un ruolo e di uno spazio proprio che per ora sembra rivolgersi ad un ruolo di mediazione tra i due fratelli più grandi.

 

Un po’ tutti sono tentati d’imboccare la scorciatoia anziché fare i conti con i rapporti di forza mutati e che rischiano di vedere soccombente il mondo del lavoro.

 

La stessa tentazione sembra interessare i Cobas che, dopo aver decretato la fine del sindacalismo di base ( ma di chi parlano?), hanno deciso di proporsi come soggetto politico.

Lo sciopero e la manifestazione del 15, che dovrebbe suggerire un qualche ripensamento critico, finirà invece probabilmente per accentuare ancor più questa deriva.

 

E’ allo sbando la galassia del sindacalismo autonomo vittima, oltre che della forte caratterizzazione corporativa e della conseguente rissosità interna, di una scelta di subordinazione servile e sciocca ai nuovi padroni che non gli lascia alcuno spazio di autonomia e di manovra.

 

Questo quadro testimonia della necessità di dare maggior spessore e visibilità ad un’alternativa sindacale di base, democratica e conflittuale.

Un compito che ci riguarda da vicino ma che non può essere prerogativa della sola RdB P.I.

 

In questo contesto assume un notevole rilievo l’Assemblea Nazionale della CUB prevista per una data da inserire nel prossimo periodo che va da giugno a settembre.

In quella sede, oltre che una valutazione della situazione politica a tutto campo, bisognerà discutere su come vogliamo e/o ci mettiamo in condizione di dare una risposta chiara e adeguata a quella domanda.

La CUB, a partire da una forte affermazione della propria identità ed indipendenza, deve riaffermare e rilanciare un modello di confederalità extra concertativa.

 

Su questo scenario hanno pesato diversi altri accadimenti.

 

· Una forte modifica del modello statuale, la concentrazione dei poteri sugli esecutivi o anche solo sulle singole figure di rappresentanza, sindaci e governatori, a danno delle assemblee elettive, la modifica del capitolo V della Costituzione votata dal centrosinistra con soli quattro voti di maggioranza.

 

Un gravissimo precedente suscettibile di favorire, semplicemente a colpi di maggioranza, lo stravolgimento dell’intero impianto costitutivo sul quale è costruita l’attuale modello di società ed il suo assetto istituzionale.

 

Un primo devastante effetto è rappresentato già dalla sola introduzione del “federalismo”, meglio sarebbe definirlo nuovo feudalesimo, con tutto quello che comporta anche in termini sindacali. (è forse utile su questo tema andare a rileggere il numero 3 del 2000 di Proteo)

 

Al di là della confusione e del conflitto che produce sul piano istituzionale e che, come avevamo chiaramente previsto, si sta manifestando clamorosamente in questi giorni sulla titolarità delle competenze tra governo centrale, regioni, provincie e comuni, il “federalismo, già al suo esordio, ha prodotto i primi guasti.

 

Il passaggio di fette consistenti di attività finora garantite dallo stato alle autonomie locali senza che siano accompagnate dalle risorse economiche adeguate a garantire prestazioni decenti.

L’effetto moltiplicatore è che si accentua la tendenza alla privatizzazione o al pagamento dei servizi o, ancora, all’imposizione di nuovi balzelli locali.

 

Sul fronte interno al mondo del lavoro i primi parziali effetti si traducono in un diverso assetto dei comparti tradizionali ed in conseguenza in mobilità di massa, cambio d’inquadramento contrattuale, aumento dei tempi di lavoro, decurtazione di salario, ecc.

 

Ed è solo l’inizio perché devono ancora dispiegarsi le conseguenze nefaste determinate dalla scelta di inserire tra le materie affidate alla legislazione concorrente la tutela e la sicurezza del lavoro e la previdenza complementare senza contare quelle che ha in mente di introdurre Bossi.

 

Si apre così un varco enorme per l’eliminazione del contratto nazionale, si da l’avvio ad una forte differenziazione territoriale su diritti e tutele essenziali, si mette in moto un processo di competizione al ribasso che, dividendo e contrapponendo al suo interno il mondo del lavoro, crea le condizioni per la resa dei conti finale.

 

E’ possibile invece che sorga anche al nostro interno la tentazione di approfittare di questa nuova situazione pensando di ricavarne un qualche vantaggio: diversi criteri per definire la rappresentatività in ambito regionale, contratti di lavoro più ricchi, ecc.

In questa direzione si stanno muovendo in perfetta sintonia i governatori del centrodestra e del centrosinistra.

Sarebbe una lettura miope perché, se pure se ne potrà ricavare un qualche vantaggio immediato, alla fine si contribuirà a determinare un imbarbarimento delle regole, dei diritti e delle tutele dalle conseguenze sciagurate per il mondo del lavoro.

 

· A partire dall’11 settembre un cambiamento epocale dello scenario internazionale con l’adozione della “guerra infinita” come strumento di dominio del mondo e di rilancio di un nuovo modello di sviluppo economico non più garantito dagli strumenti tradizionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale o il WTO.

L’Argentina, e solo come ultimo esempio di una lunga catena, docet!

 

Le ricadute sul piano politico, sociale ed economico sono enormi.

L’entrata in guerra dell’Italia con un largo sostegno bipartizan sancisce la completa internità del nostro paese alla competizione globale e prefigura una riduzione degli spazi di agibilità democratica ad ogni livello.

 

Non è per caso che vengono associati alle pacifiche e grandiose manifestazioni di massa delle ultime settimane pericoli di terrorismo e che dopo due giorni che sono state evocate si materializzino le bombe o che il ministro di polizia, Scajola, si possa permettere impunemente sui giorni di Genova dichiarazioni che in altri tempi avrebbero comportato le dimissioni.

 

Un clima che spinge ad impedire o a contenere con la repressione e le minacce lo sviluppo del conflitto sociale, a bloccare sul nascere il processo di unificazione tra pezzi variegati e diversamente motivati della società e il mondo del lavoro.

 

Sul piano economico viene varata un ben mascherata finanziaria di guerra e viene brandita ad ogni occasione per dire niet; il ministro Frattini che, se continua così, sarà capace di compiere il miracolo di farci rimpiangere Bassanini, in tutte le occasioni ha avuto l’ardire di sostenere candidamente che i soldi per il rinnovo dei contratti dei pubblici dipendenti erano meno di quanto dovuto perché c’è da far fronte alle spese di guerra.

 

 

· Da Genova in poi irrompe sulla scena italiana un nuovo soggetto, il movimento no global, un movimento dalle più diverse anime e che aldilà di come si rappresenta o è anche artificiosamente rappresentato, segnala la crisi dell’ideologia dominante, il cosiddetto pensiero unico, e il riaffacciarsi all’impegno politico di una moltitudine di soggetti, in massima parte giovani.

 

Un movimento con il quale abbiamo stabilito un rapporto non facile e con il quale sarà ancora utile mantenere e sviluppare il rapporto per tentare di imporre all’attenzione di tutti la presenza di una rappresentanza sindacale e far emergere ed assumere come elementi fondanti le ragioni del lavoro.

 

Un terreno sul quale è peraltro necessario che il movimento sciolga una buona dose di ambiguità; non si può indifferentemente schierarsi con il sindacalismo di base o con la Cgil in nome della lotta ad un comune nemico prescindendo dai contenuti agitati e dagli obbiettivi perseguiti.

 

E’ in questo scenario, grossolanamente riassunto, che si è esercitata la nuova esperienza di pubblico impiego fino all’appuntamento elettorale.

 

 

Il risultato elettorale, che andrà analizzato in tutti i suoi risvolti, è senz’altro positivo.

 

Questa secca affermazione non ci deve indurre a trascurare limiti, errori, inadeguatezze, ecc., anzi proprio su questo si deve esercitare l’attenzione e la ricerca di correttivi idonei all’esercizio di una nuova e maggiore responsabilità.

 

Né lo sforzo di una lettura critica può ridursi al dato elettorale, men che meno alla semplice conta dei numeri.

 

Dobbiamo approfittare dell’occasione di largo confronto rappresentata dalla Conferenza di organizzazione per attrezzarci a svolgere adeguatamente i gravosi compiti che abbiamo davanti.

 

La ripresa dell’iniziativa, dopo lo straordinario successo del 15 febbraio, per dare continuità alla battaglia per la difesa degli spazi di democrazia e di libertà e per l’estensione di diritti e tutele sociali.

 

Abbiamo davanti la lotta per i rinnovi contrattuali e contro i processi di privatizzazione della sanità, della scuola, della Previdenza pubblica e di smantellamento della Pubblica Amministrazione gravemente compromessa dalla scellerata preintesa firmata da Cgil, Cisl e Uil, la lotta in difesa del diritto di sciopero, contro ogni forma di precarietà, ecc.

 

Sul fronte interno dobbiamo garantire una prospettiva di sviluppo e la capacità di svolgere un ruolo avanzato a quei comparti che non avendo raggiunto la maggiore rappresentatività possono pagarne un prezzo sul piano della tenuta e nel rapporto con i lavoratori, a partire da uno sforzo straordinario, ma possibile, per realizzare l’obbiettivo mancato nel settore Università, al quale manca una manciata di deleghe.

 

L’obbiettivo centrale dell’appuntamento di maggio deve essere quello di riuscire a dotarsi di gambe solide e di braccia robuste per sostenere questo sforzo straordinario.

 

ADESIONI

 

Dobbiamo soffermarci, per esempio, su una valutazione del numero di deleghe raccolte finora, tra nuove adesioni e cancellazioni un numero sostanzialmente stabile.

Un dato estremamente negativo, tantopiù perché persiste ancora un gap ingiustificato tra numero di voti e adesioni, stante il rapporto di circa 2,5 a 1 tra i due dati.

 

Un lusso che non possiamo permetterci considerando che le quote sindacali sono ad oggi le sole risorse di cui possiamo disporre per soddisfare le crescenti richieste che provengono da ogni dove, peraltro, spesso ma non sempre, sacrosante, di maggiori risorse economiche e di apertura di sedi per consentire un adeguato e decoroso svolgersi dell’attività quotidiana.

 

Questo ritardo è dovuto a trascuratezza, superficialità, malinteso senso del pudore dei nostri quadri o a difficoltà oggettive, oppure all’assenza di strumenti adeguati o alla difficoltà di trovare il messaggio più efficace?

 

Trovare una risposta a questo interrogativo è vitale ed urgente, porsi l’obbiettivo di tradurre in adesione consapevole, stabile ed attiva il consenso che viene espresso alla RdB nel segreto dell’urna è compito ineludibile.

 

DIFFUSIONE TERRITORIALE

 

Altrettanto ineludibile l’obiettivo di trasformare in insediamenti stabili i punti di diffusione territoriale più larga che è stata realizzata in questi due anni, a partire dai luoghi dove siamo stati presenti solo con la lista elettorale.

 

Se pure possiamo registrare dei passi in avanti, la mappa nazionale del nostro insediamento denuncia dei vuoti consistenti, a volte, almeno apparentemente, del tutto inspiegabili.

 

Da questo punto di vista la lettura dei dati riepilogativi del risultato elettorale può aiutarci molto.

 

Emerge, infatti, che siamo presenti con le nostre liste in 1.573 luoghi di lavoro su 11.222, che copriamo un bacino di 447.607 lavoratori su 1.105.881 con una percentuale di copertura delle liste RdB del 40%, realizzando un risultato relativo del 10,68% di consensi.

 

Comparando questo dato medio con la scomposizione per settori emergono livelli d’insediamento molto disomogenei e se scomposti a livello provinciale emergono diseguaglianze abissali.

 

Solo a titolo indicativo: rispetto alla media nazionale del 40%, di copertura del bacino elettorale abbiamo il dato del 62% nel Lazio e del 60% in Piemonte contro il 28% in Abruzzo e il 25% in Sicilia, una copertura dell’80% nel comparto Aziende e del 70% nel Parastato contro il 37% nei Ministeri e il 25% negli Enti locali.

 

Vuoti che è realisticamente immaginare che possano essere riempiti se assumiamo una logica di pubblico impiego anziché attardarci a coltivare esclusivamente il vaso di fiori posto sul davanzale della propria finestra perché produca qualche fiore in più invece di preparare altri vasi sui quali innestare nuove talee e dar vita, così, ad un esplodere di colori e di profumi che invadono tutta l’aria attorno.

 

Questo non vuol dire che bisogna trascurare la cura dei settori, anzi sul piano organizzativo dobbiamo dotarci di strumenti che consentano di ricucire tutti gli strappi nella rete, maglia per maglia.

 

La correzione di tiro va operata dal punto di vista della progettualità, dobbiamo investire l’impegno e tutte le nostre risorse in un progetto generale di pubblico impiego che fissi gli obbiettivi prioritari e realizzi l’equilibrio più avanzato possibile tra le esigenze di sviluppo dei settori o dei territori e quelle più generali dell’intera categoria.

 

E’ anche attraverso questa logica e questo metodo di lavoro che siamo riusciti a crescere e ad espanderci negli anni passati.

 

La tabella riepilogativa dei dati che è allegata al documento ci aiuterà, a partire da una lettura critica del risultato nel proprio posto di lavoro, settore, provincia e regione, a capire se e quali interventi è possibile programmare per ottenere risultati più avanzati.

 

DELEGATI RSU

 

Siamo riusciti a far eleggere nelle nostre liste poco più di 2000 delegati, quasi il doppio rispetto al ’98, un numero rilevante che può essere un importante fattore di crescita a patto che rompa con la logica delle RSU e diventi veicolo delle posizioni e motore delle iniziative della RdB.

 

Ad evitare di ripetere l’esperienza dei tre anni precedenti che hanno visto gli eletti RSU nelle nostre liste vivere spesso in modo separato la loro esperienza, venire fagocitati nei meccanismi defatiganti e frustranti dei regolamenti interni alle RSU o sepolti in trattative sull’aria fritta, dovremo farci carico di coinvolgerli nel dibattito, nella costruzione di una rete organizzata a partire dall’ambito regionale o inter provinciale, nella preparazione delle piattaforme e gestione delle iniziative a loro sostegno, nella battaglia per una vera democrazia nei luoghi di lavoro e perché gli eletti dai lavoratori abbiano più potere e più materie di competenza sulle quali esercitare il loro mandato.

 

Dobbiamo riuscire, insomma, a trasformare l’impegno generoso profuso dai delegati eletti nelle nostre liste per assolvere al meglio il proprio compito in una occasione per implementare il nostro impianto organizzativo, rivitalizzare il rapporto con i lavoratori, il dibattito, le nostre strutture.

 

RISULTATO ELETTORALE

 

Sul piano meramente elettorale solo alcuni dati particolarmente significativi:

 

- rispetto ai dati del ’98 registriamo un incremento, in termini numerici assoluti, di circa 7000 voti, un dato in controtendenza rispetto a quello registrato da Cgil, Cisl e Uil che invece perdono;

 

- un incremento che tradotto percentualmente in termini di rappresentatività diventa del 50%, per effetto della diminuzione del bacino elettorale e del numero di voti validi

 

- il conseguimento della maggiore rappresentatività in sei comparti.

 

Emerge uno spazio potenziale di adesione di gran lunga più consistente rispetto a quello che è concretamente emerso complessivamente.

 

Solo ad esempio, arrotondando le cifre decimali e considerando i risultati rispetto al bacino in cui eravamo presenti con le nostre liste, rispetto all’11% nazionale, otteniamo il 20% nel settore Università, il 18% nelle Agenzie fiscali, il 17% nei Ministeri e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il 16% nel Parastato e nelle Aziende.

E’ di straordinario interesse il dato dell’8% nei settori Sanità ed Enti locali, tenendo conto delle dimensioni, delle caratteristiche e delle notevoli difficoltà che incontriamo in quei due comparti.

 

Dati che ci consentono di affermare che non siamo in presenza di un generico malcontento o di un episodico consenso ma dell’espressione di un chiaro bisogno di diversa rappresentanza sindacale e di una consapevole adesione ad un diverso modello e pratica sindacale, ad una diversa linea programmatica e rivendicativa.

Un risultato che ha un indubbio peso sul piano della credibilità della nostra proposta agli occhi dei lavoratori, dei rapporti e del prestigio politico che in diversi modi ha già avuto modo di manifestarsi (valga per tutti l’invito per la prima volta al congresso della Cgil )

 

CONFERENZA DI ORGANIZZAZIONE

La riflessione sulla situazione politica, la valutazione sullo stato di salute dell’organizzazione e le scelte da fare sul piano politico-organizzativo devono investire tutto il corpo dell’organizzazione a partire da quello che nel frattempo si è già costruito.

L’assemblea di tutti i delegati di posto di lavoro in ambito regionale sarà il momento di confronto per una verifica dei livelli fin qui costruiti.

L’insieme delle considerazioni fin qui svolte, che pur tenendo conto delle zone d’ombra, si possono riassumere in una valutazione complessivamente positiva ci impone di partire nella costruzione della Conferenza dal dato reale che abbiamo davanti, di ripartire con maggior lena da quello che c’è.

Dall’analisi del percorso sinteticamente rappresentato finora ci sembra che esca rafforzato sul piano politico, programmatico ed organizzativo l’impianto che ci siamo dati.

Questo non vuol dire affatto che dobbiamo lasciare le cose come stanno, anzi c’è da apportare idonei correttivi, e a tutti i livelli, che ci consentano di essere all’altezza dei compiti che ci si prospettano.

Con le conclusioni della Conferenza dovremmo essere in grado di decretare la fine della prime fase di sperimentazione ed avviare la nuova.

In che cosa consiste la nuova fase:

- Dobbiamo dotarci di una Direzione nazionale in grado di superare gli evidenti limiti, oltre quelli fisiologicamente connessi alle peculiari caratteristiche dei compagni che l’hanno costituita finora, registrati in questo lasso di tempo.

La Direzione per svolgere al meglio e fino in fondo il compito a cui è preposta deve essere liberata, almeno in buona parte, dei compiti di mera gestione diretta dei settori, anche ai minimi livelli, che l’hanno impegnata finora e che ne hanno sacrificato le potenzialità o che non consentono una vera verifica che permetta d’immaginare un’adeguata diversa ipotesi.

 

- Riteniamo, perciò, che sia necessario dotarsi di un nuovo strumento di lavoro politico-organizzativo, un Coordinamento Nazionale rappresentativo dei settori che ci consenta di realizzare una gestione diretta meno particolaristica e più puntuale di quella svolta fin qui, di allargare il livello di coinvolgimento e di responsabilità del quadro dirigente, di essere più rapidi nelle scelte, più capaci di ascolto e più in sintonia con gli umori e i bisogni più reconditi, di dare più omogeneità politica e programmatica alla categoria Pubblico Impiego.

 

- Dobbiamo ripensare il Consiglio nazionale, organismo centrale e determinante delle scelte politiche, e il ruolo da esso esercitato.

Anche qui emergono limiti di varia natura e la sua composizione va ripensata probabilmente anche scegliendo di allargarne la composizione a soggettività nel frattempo emerse e per dare a questo organismo una dimensione più rappresentativa.

 

- I Coordinamenti e le Direzioni regionali di P.I., aldilà delle fattezze che hanno assunto in ogni singola regione, si sono rivelati di estrema utilità, sembrano aver funzionato, certo in modo non omogeneo, ma sufficientemente per confermare la correttezza di quella scelta.

E’ ovvio che è utile e necessaria una rivisitazione alla luce dell’esperienza fin qui condotta.

In alcuni casi, come in Toscana e nel Lazio, i coordinamenti devono addirittura essere formalmente costituiti.

In altre regioni potranno avvenire integrazioni e/o sostituzioni, sarà insomma l’occasione per sciogliere nodi che si sono magari aggrovigliati nel frattempo e fare i conti con i tanti “ismi” dei quali abbiamo diffusamente discusso in questi mesi e che, non solo non hanno alcun ragione di esistere, ma non è più tollerabile che vengano trascurati a danno dell’immagine e di una maggiore unitarietà di gestione dell’organizzazione.

- L’Assemblea regionale di P.I. è la sede deputata a ragionare sulle scelte operate finora, sui risultati perseguiti e realizzati, sul ruolo esercitato dai componenti il Coordinamento e la Direzione regionali e a decidere le integrazioni, modifiche, sostituzioni sull’impianto organizzativo che ci si è dati.

- I delegati alla Conferenza possono essere indicati nel numero di 180 che saranno distribuiti in ambito regionale tenendo conto di più criteri: numero degli iscritti, numero di voti conseguiti alle elezioni, diffusione territoriale, necessità di sviluppo, addensamenti di comparto, ecc...

I delegati di ogni singola regione saranno espressi dai coordinamenti regionali in modo da garantire i criteri che hanno portato alla loro costituzione: tendenziale pariteticità di rappresentanza dei comparti e adeguata presenza dei territori provinciali.

A questi vanno aggiunti i membri della Direzione attualmente in carica, i dirigenti nazionali delle strutture verticali di amministrazione e quei compagni che dirigono Federazioni strettamente connesse con il lavoro di pubblico impiego.

 

- Infine, va ovviamente sottolineato il ruolo che le Federazioni territoriali hanno e devono continuare ad avere: struttura periferica della Federazione Nazionale, punto di riferimento politico ed organizzativo per tutte le categorie e strutture RdB.

In questa ottica la Federazione deve essere sostenuta e vissuta da tutti noi come elemento di sintesi politica generale.

Tenendo conto che, almeno per ora, la nostra organizzazione è caratterizzata da una forte prevalenza sul territorio di strutture di pubblico impiego è particolarmente importante che si confermi e si consolidi uno stretto rapporto d’internità tra Federazioni e Coordinamenti regionali.

 

 

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